Un po’ Wenger, un po’ Mourinho, ma anche Guardiola, Conte e Aragonés: dentro Césc Fàbregas convivono le idee dei grandi allenatori che lo hanno formato, creando un profilo inedito e sorprendente nel panorama del calcio moderno. Alla vigilia del suo 38º compleanno, l’ex campione di Arsenal, Chelsea e Barcellona si racconta e spiega perché ha scelto il Como, rivelando dettagli del suo presente da tecnico e imprenditore del pallone.
Il centro sportivo di Mozzate, avveniristico progetto del club lombardo, è il simbolo concreto della visione di Fabregas, che da giocatore si è trasformato in stratega e dirigente. Dalle lavagne piene di appunti e geroglifici, fino all’organizzazione delle sedute tecniche, tutto porta la sua impronta. La struttura, completata di recente, rappresenta il cuore pulsante di un progetto che il catalano segue da vicino in ogni dettaglio.
Il passaggio dal campo alla panchina è stato naturale, ma sorprendentemente veloce. «Avevo firmato per due anni da giocatore, ma dopo il primo ho capito che il mio ruolo doveva cambiare», spiega al microfono del direttore de Il Corriere dello Sport Ivan Zazzaroni. Il contatto con Como è nato grazie al suo agente Darren Dein, lo stesso che nel 2014 gestì l’incredibile duello tra Manchester City e Chelsea per assicurarsi Fabregas giocatore. Mourinho, racconta, lo convinse in un minuto: «Salutandoci sulla porta, io e Darren ci guardammo e ci sembrò di avere già il contratto in mano».
Si ma come è nata veramente l’idea di approdare al Como: «Trattando Binks con il Como Darren ha cominciato a chiarire la mia situazione e loro hanno mostrato interesse. Io ero in scadenza con il Monaco e sentivo che era il momento giusto per cambiare e crescere. Cercavo un progetto diverso, desideravo qualcosa di nuovo. Ricordo di aver parlato anche con la Salernitana. Offriva un contratto di due anni, ma dopo cosa avrei fatto? Il mio progetto personale era quello di giocare ancora e cominciare a pensarmi allenatore, il Como mi ha dato questa opportunità».
Il progetto Como ha offerto a Fabregas la possibilità di evolversi, seguendo la Primavera, studiando da tecnico e acquisendo quote societarie. Un laboratorio perfetto per la sua idea di calcio, fondata su un gioco propositivo, mai banale, che valorizza le qualità tecniche anche in assenza di un classico regista difensivo. «Non abbiamo un play come Rodri o Paredes, ma ci adattiamo. Il mio stile parte da ciò che ho a disposizione, sempre con l’obiettivo di vincere. Stiamo giocando praticamente il 70% della stagione con Da Cunha, Perrone e adesso Caqueret a centrocampo che sono esterni, numeri 10, numeri 8, non c’è un play che è più fisico e posizionale.».
L’autonomia di cui gode a Como è rara e preziosa, ammette. «Lavoro con il presidente, il direttore Charlie e Osian Roberts, figura di riferimento per il settore giovanile. Qui ho voce in capitolo su tutto». Una libertà difficile da ritrovare nei top club, dove l’allenatore è spesso ingabbiato in ruoli limitati. Eppure, il suo nome è già sulla bocca di tutti. «Sono giovane e so come funziona. Mourinho ci diceva che questo è un mestiere usurante: serve tempo per ricaricarsi».
L’importanza fondamentale sembra essere credere al 110% in quello che si fa, nell’idea di calcio che si vuole perseguire: «Potrei tranquillamente dire ai miei dài, andiamo a giocare palla lunga e conquistiamo la seconda palla. Ma non saprei come allenare la squadra, nel senso che non credo in quel calcio, non potrei mandare il messaggio giusto al giocatore. Il giocatore intelligente ti guarda in faccia, ti analizza. Se non è sicuro di quello che sta facendo tocca a me dargli gli input giusti e convincerlo».
La filosofia di Fabregas non rinnega alcuno stile, ma valorizza la coerenza. Lo racconta con un aneddoto: «A cena con Capello, dopo la promozione in Serie A, mi disse che ora dovevo pensare solo a difendere. Ma io quella sera andai a dormire più convinto della mia strada». Da Conte, Mourinho, Guardiola ha preso il meglio: «Diversi sul campo, ma tutti ossessionati dalla vittoria. E Antonio è della stessa pasta: è un fenomeno, un fenomeno. Potrei giocare e allenare giorno dopo giorno come fa Antonio? Sicuramente no. Però ho imparato tantissimo. Da Antonio, dalla sua metodologia e, soprattutto, dal suo messaggio costante, dalla sua idea. La mia è un po’ diversa dalla sua, tuttavia lui con la sua chiarezza e autorevolezza ti porta sempre all’obiettivo». ».
Nel calcio moderno, Fabregas denuncia una crescente meccanicità che limita la creatività del giocatore. «Quando iniziai in Premier era una guerra, palla lunga e seconda palla. Mi ricordo il mio debutto contro Lee Carlsey e Gravesen contro l’Everton: fu una vera guerra. Oggi si è più robotici, c’è meno spazio all’inventiva». Eppure, nonostante tutto, continua a credere in un calcio pensato, ragionato, e profondamente umano. Una filosofia che lo sta già rendendo uno degli allenatori più seguiti della nuova generazione.