Stefano Borgonovo: i gol, il dolore, l’eternità nei nostri cuori

Il nostro ricordo a 12 anni dalla morte dell'ineguagliabile mito lariano

Alla fine dobbiamo tutti ringraziare una donna: la mamma di Stefano Borgonovo. Per averlo partorito, sì, ma anche per avergli impedito di andare al Milan quando aveva 10 anni. Altrimenti non sarebbe diventato il nostro simbolo più bello.

Il fatto che sia NETTAMENTE il giocatore più amato dai comaschi dimostra una cosa: l’affetto dei tifosi non segue le statistiche. 116 presenze e 23 gol con la nostra maglia: in molti hanno fatto meglio. Ma Borgo-gol è Borgo-gol, forse non si può spiegare: l’icona di una generazione d’oro, i figli di Orsenigo, di Favini, Vitali, Beretta. I primi calci all’oratorio di Giussano, figlio di venditori al mercato. Gli studi da odontotecnico, il cuore nel pallone. Gli anni nelle giovanili biancoblu. Mister Seghedoni, che prima lo illuse di un debutto imminente in Prima squadra e poi lo rimandò in malo modo tra i piccoli: la reazione di Stefano fu da campione vero, tripletta il giorno dopo in Primavera e un bel “vaffa” a Seghedoni, che era sugli spalti, ne apprezzò il carattere e lo lanciò poco dopo in Serie A. E poi la magica stagione 85-86 in coppia con Corneliusson: 12 gol in 26 partite dall’arrivo di mister Marchesi, la corsa sotto la curva contro la Samp, la rete decisiva contro l’Inter, il nono posto, la cavalcata in Coppa Italia interrotta solo da un accendino… Momenti indimenticabili per chi li ha vissuti, era l’epopea della Fossa Lariana e di un Como mina vagante in Serie A. Ahimé, Bearzot si fece imporre la convocazione di Paolo Rossi, altrimenti al Mondiale messicano sarebbe andato il Borgo, che della Nazionale ebbe solo un assaggio. E con qualche infortunio in meno, nelle due stagioni successive avrebbe fatto ribollire ancor di più il Sinigaglia.

Borgonovo non è stato solo nostro: dopo aver lasciato Como c’è stata la sua amata Fiorentina, in coppia con Baggio. E poi il Milan e la Coppa Campioni vinta da protagonista. Infine Pescara, Udinese e Brescia. Ma solo per noi è il più amato di sempre.

Non solo per quanto fatto in campo, inutile nasconderlo, ma anche per l’amaro finale. La “tacchettata del destino in piena faccia”, come l’ha definita lo stesso Stefano. Quella grandissima “stronza”, la SLA. Tutto è iniziato da un “forse” che dopo essere uscito dalla sua bocca è diventato “foe”, senza r e senza s. Poi un dito bloccato, un braccio difficile da controllare, la lingua che si restringe. Un anno e mezzo dopo il primo sintomo, ha perso la parola. E da lì un declino fisico inesorabile, fino alla paralisi completa, attorno a un cervello perfettamente funzionante. Terribile, per un poco più che 40enne. Esattamente 12 anni fa Stefano ha lasciato sua moglie, i suoi figli e tutti noi.

Foto tratta dal sito Museo del Como

Lo amiamo perché non era un supereroe. Per diverso tempo ha negato il problema e l’ha subìto. Stefano era umano, umanissimo, ma anziché mollare e staccare letteralmente la spina ha deciso di lottare. Anche con la sua Fondazione. “La vita è la cosa più bella che esista, non ci sono difficoltà o Stronze che tengano”, diceva. Nei momenti più difficili, quando stava per scoprire la diagnosi, si preoccupava dei ragazzi che allenava alla scuola calcio di Giussano, oppure si imbarazzava perché nella sala d’attesa dell’ospedale c’erano persone che aspettavano da più tempo di lui. O semplicemente faceva battute, per sdrammatizzare. Come quando trasformava autoironicamente la sua situazione in un cruciverba: “Uno orizzontale: io”. No, la malattia non l’ha cambiato. È rimasto lo stesso ragazzo che – al primo incontro – prese in giro Berlusconi per il suo cappello e gli chiese: “Presidente, è venuto a cavallo?” Era un bravo ragazzo, ma era anche uno vero, mai banale o calcolatore nelle sue dichiarazioni. Come quando, dopo un rigore negatogli, disse: “Volevo vedere se al posto mio ci fosse stato Maradona…” Ecco perché gli vogliamo bene. Ecco perché quel giro di campo in Como-Canavese del 2008 fu così magico ed emozionante.

Ha anche conservato la passione per il calcio: dopo la paralisi, disse di essersi mosso nel letto dopo un gol di Gilardino in Liverpool-Fiorentina. E ha sempre respinto le accuse di doping: lui che da giovane si era ritrovato in macchina uno sconosciuto eroinomane in crisi d’astinenza che – coltello in mano – lo obbligò ad accompagnarlo a comprare la “roba”, avrebbe mai potuto drogarsi?

La sezione “I miti lariani” di CalcioComo.it non poteva che iniziare con lui. Lui che nel 2010, a più di 20 anni di distanza dall’ultima partita in biancoblu, si definì “ancora legato emotivamente a questa società in un modo quasi morboso”. Il destino ha spento questo legame 12 anni fa, mentre il nostro per lui è una fiamma inestinguibile.

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